EPISODIO 2 - FEMMINICIDIO
Ciao,
Anche questa settimana è finita (come vola il tempo quando ci si diverte!). Niente, mi fanno sempre molto ridere i luoghi comuni. Scherzi a parte, spero che la tua settimana sia trascorsa in serenità. In questi giorni sta facendo molto discutere ciò che ha detto Barbara Palombelli a Forum, ma non è da qua che parto. Hai sentito parlare del femminicidio accaduto a in provincia di Vicenza qualche giorno fa? Ecco, questa settimana vorrei raccontare qualcosa a riguardo, parlando di numeri e narrazione. Prima però partiamo dalla definizione.
COS’È
Femminicidio è una parola tutto sommato recente. Infatti la parola nasce nel 1976 con il libro “Feminicide”, scritto dalla sociologa Diana Russell. Fu proprio lei a coniare il termine, che però, almeno in Italia, diventerà di uso corrente molti anni dopo, anche se la strada non è finita. È solo nel 2010 che Treccani e Zingarelli inseriscono una definizione di femminicidio. Non solo la definiscono “l’uccisione di una donna o di una ragazza”, ma anche “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. La parola femminicidio indica qualcosa di molto preciso che non è un omicidio generico, ma si concentra anche sulla relazione tra vittima e omicida, l’uomo. Ecco perché tutte le parole come “raptus”, “gelosia”, ecc. non aiutano a comprendere il fenomeno, ma, anzi, finiscono per mancare di rispetto alle vittime stesse, uccise per una precisa volontà di annientamento da parte dell’uomo.
I NUMERI DEI FEMMINICIDI
L’Istat ci viene incontro. Guardando al trend degli ultimi 15 anni (circa), si desume un’informazione fondamentale: a fronte di un calo fisiologico degli omicidi nel loro complesso, quelli che hanno come vittime delle donne rimangono sostanzialmente costanti. Un segno chiaro che il fenomeno c’è. Nel 2021 le vittime di femminicidio sono state 83.
Su questo tema sono anche interessanti i dati sulla violenza di genere, di cui il femminicidio è l’esempio più estremo. Sempre l’Istat (a dire la verità la fonte è il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri) rilascia i dati per trimestre sulle chiamate al numero antiviolenza e stalking 1522.
Il picco che vedete nel grafico dopo il 2020 (mappa) rappresenta il trimestre tra aprile e giugno dell’anno scorso. I numeri, quindi, crescono esattamente in corrispondenza del lockdown duro dell’anno scorso, una condizione che ha favorito l’acuirsi degli episodi di violenza di genere, visto che le vittime si sono ritrovate chiuse in casa a stretto contatto con il proprio carnefice.
COME SI RACCONTA UN FEMMINICIDIO
Faccio una premessa. C’è un problema di narrazione e parlo soprattutto del linguaggio giornalistico. Se volete un esempio, c’è un articolo di Left a riguardo. Quante volte abbiamo sentito parlare di “raptus”, “follia”, “gelosia” quando una donna viene uccisa? Tante. Secondo me troppe. Uno dei difetti del giornalismo è quello di usare un linguaggio vecchio e automatico, dettato spesso dall’abitudine. Il giornalismo di cronaca ha da sempre alcune espressioni tipiche e non parlo solo di cronaca nera. Parole o espressioni come “fare la barba al palo” nel calcio o il suffisso “-gate” quando si parla di scandali. Alcune di queste non vengono più usate, altre invece sono ancora di uso comune. Nella cronaca nera ci sono ancora tante espressioni che vengono usate dai giornalistə, ma, nel caso dei femminicidi, alcune di queste non solo sono sbagliate, ma a volte finiscono per cadere in un becero victim blaming o per distogliere l’attenzione dalla vera natura dei fatti.
Tuttavia esiste un documento sottoscritto da giornalistə e da sindacati che ha proprio l’intento di orientare il racconto della violenza di genere verso un linguaggio più adatto e rispettoso e, allo stesso tempo, occuparsi più in generale della discriminazione di genere. Il “Manifesto di Venezia” sulla violenza di genere stabilisce di utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”, sia essa fisica, psicologica, economica, giuridica e culturale. Oltre a ciò stabilisce di “sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano ‘violenze di serie A e di serie B’ in relazione a chi subisce e a chi esercita la violenza” e di “illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere”. Termini come “amore”, “raptus”, “follia”, “gelosia”, “passione”, accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento, sono considerati fuorvianti. Così come si dovrebbe evitare l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale o oggetto del desiderio (come la donna descritta come “bella e impossibile” nell’articolo citato da Left). Spesso si leggono alcune espressione che finiscono per suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via. Tutte espressioni che il “Manifesto di Venezia” condanna.
So che è un documento prevalentemente rivolto a giornalistə, ma anche per utenti e lettorə è importante sapere cosa si dovrebbero aspettare da chi leggono o ascoltano e, di riflesso, pretenderlo.
Se hai dubbi o critiche, non esitare a scrivermi.
Alla prossima parola!